Che cosa stiamo facendo per salvaguardare la salute del nostro pianeta e dei suoi abitanti? È la domanda che si sono posti gli ideatori di “TOward 2030. What Are You Doing?” un progetto promosso dal Comune di Torino e da Lavazza che vuole sensibilizzare l’opinione pubblica, attraverso l’arte di strada, nei confronti delle tematiche più urgenti legate allo sviluppo sostenibile. Sono 17 i Sustainable Development Goals individuati dalle nazioni Unite e l’obiettivo è quello di raggiungerli tutti entro il 2030.
Lo stimolo a rispondere a questi interrogativi urgenti passa attraverso un mezzo comprensibile a tutti: la street art. Un linguaggio immediato e universale che smuove le persone, soprattutto i giovani, gli uomini di domani, coloro che porteranno sulle loro spalle il peso di tanti errori commessi dalle generazioni che li hanno preceduti ma avranno anche gli strumenti e la forma mentis per dare il là a una rivoluzione positiva che porti al raggiungimento di nuovi traguardi.
Torino, città ambasciatrice del progetto, ha messo a disposizione degli artisti muri e facciate, dal centro storico fino alle periferie. Gruppo Boero, eccellenza del colore italiano da quasi 200 anni, ha invece fornito tutti i colori murali (parliamo di centinaia e centinaia di litri) necessari per la realizzazione delle opere. Mentre scriviamo quattro delle diciassette previste sono già state ultimate o sono in fase di esecuzione. Ognuna è legata all’interpretazione di un obiettivo: sul Lungo Po Antonelli ha preso vita l’opera dello street artist toscano Marco Burresi, in arte ZED1, che ha interpretato il Goal 1: No Poverty – Sconfiggere la povertà; Matteo Capobianco, aka Ufo5, è l’artista che ha disegnato su muro il Goal 11: Sustainable cities and communities – Città e comunità sostenibili, in Corso Regina; sempre in Corso Regina, lo street artist Mr Fijodor ha rappresentato il Goal 14: Life Below Water – Vita sott’acqua; per finire, il collettivo torinese TRULY Urban Artists ha realizzato in Piazza Cesare Augusto il Goal 2: Zero Hunger – Sconfiggere la fame, ed è proprio qui che ho fatto la mia incursione, per conoscere coloro che tra i primi in assoluto hanno portato l’anamorfosi nel mondo dell’arte di strada.
Sembra una parola complicata ma in realtà l’anamorfosi non è altro che un’immagine fortemente distorta che acquista un senso compiuto solo quando l’osservatore si dispone in una particolare posizione. Ogni giorno vediamo delle anamorfosi attorno a noi: la segnaletica stradale orizzontale (come la scritta “STOP“, il pittogramma della bicicletta, ecc.) è sempre anamorfica affinché le scritte appaiano leggibili da un punto di vista molto radente. Gli appassionati di Formula 1 possono osservare un tipico esempio di anamorfosi nelle pubblicità posizionate sui prati attorno al circuito: dal punto di vista delle telecamere appaiono esattamente come se fossero verticali, con il logo dell’azienda fedelmente riprodotto, mentre in realtà sono tappetini stesi orizzontalmente. Di questo e di altri interessanti particolari ho parlato con Emanuele, portavoce di TRULY:
Ciao ragazzi, benvenuti su Picame. Iniziamo col raccontare ai nostri lettori chi siete, da dove venite e che cosa fate.
Noi siamo i TRULY, un collettivo di urban artists attivi sin dai tardi anni ’90. Abbiamo iniziato nella maniera più classica come una crew di writer in depositi ferroviari, fabbriche abbandonate e periferie, evolvendo negli anni la nostra ricerca a partire dal graffiti writing, sperimentando negli anni 2000 con la street art e approdando negli ultimi dieci anni al muralismo e all’arte pubblica.
Siete tra le poche realtà a livello mondiale che lavorano quasi esclusivamente con l’anamorfosi. Cosa vi ha portato a fare questa scelta e quali sono i vantaggi e le difficoltà che comporta?
Il focus sull’anamorfosi è stato un passaggio illuminante del nostro percorso. In uno dei nostri “pellegrinaggi” nei musei di arte antica ci siamo trovati davanti ad uno dei capolavori della pittura rinascimentale europea: gli “Ambasciatori” di Hans Holbein il Giovane, presso la National Gallery di Londra. Ai piedi di questo doppio ritratto c’è una macchia amorfica che osservata lateralmente rispetto alla tela diventa un teschio. Al tempo eravamo in piena ricerca ed evoluzione del nostro linguaggio e ritenevamo che gli spunti più interessanti per i nostri muri dovessero uscire dal mondo molto autoreferenziale dei graffiti e della street art di quegli anni. Un cambio di “punto di vista” nel modo di fruire un’opera ci sembrava un fattore importante da inserire nei nostri lavori. Le fabbriche abbandonate di Torino erano piene di architetture complesse e da quel momento il nostro sguardo si è spostato dai muri lineari verso superfici articolate e discontinue. La scelta di lavorare su questi particolari effetti ottici ha complicato molto la realizzazione delle nostre opere, ma ha dato nuova linfa alla nostra sete di ricerca.
Le opere anamorfiche assumono un senso compiuto solo se osservate da un certa prospettiva. A livello pratico come si realizza un’immagine che, dal punto di vista di chi dipinge, appare totalmente deformata?
In diversi casi abbiamo scelto di fare i nostri anamorfismi senza l’ausilio di un proiettore, studiando la deformazione dal punto di vista prospettico e matematico. In questo caso sistemiamo una macchina fotografica in corrispondenza del punto di vista e uno di noi dirige il resto del team al fine di far collimare ogni linea spezzata sull’architettura, “riassemblando” l’opera otticamente dal punto di vista. Detto questo, in molti casi partiamo da uno sbozzo proiettato per accorciare i tempi di realizzazione: il proiettore però ci da una traccia affidabile solo sulle superfici più vicine al punto di vista e su quelle meno inclinate. Tutto il resto rimane fuori fuoco e per terminare il disegno dobbiamotornare alla modalità “analogica”. Abbiamo fatto esperimenti totalmente analogici, senza proiettore, per non sentirci sempre vincolati psicologicamente all’utilizzo della tecnologia. In epoca rinascimentale e barocca ci fu un enorme interesse verso questo tipo di arte e così ci siamo convinti di potercela fare anche noi, molti secoli dopo, pressoché con gli stessi mezzi. Non siamo dei detrattori della tecnologia ma ci piace che il fulcro del nostro del nostro lavoro rimanga basato soprattutto su saperi e capacità, per così dire, “senza tempo”.
Avete da poco ultimato il vostro contributo al progetto “TOward 2030. What Are You Doing?”: un muro di quasi 400 metri quadrati che vuole rappresentare un tema importante: il superamento del problema della fame nel mondo. Come avete affrontato un argomento così complesso e urgente?
Abbiamo declinato il “Goal 2: Zero Hunger” pensando al termine latino “cultus”, la cui traduzione comprende sia quella di coltivazione/coltura che quella di cultura/educazione. Con il linguaggio proprio dell’astrazione geometrica abbiamo immaginato un campo rotondo il cui disegno è basato sulla geometria della sezione aurea, in cui si incunea un seme volumetrico. L’opera si trova in un contesto urbano particolarissimo: Porta Palazzo, il mercato ortofrutticolo all’aperto più grande d’Europa. Qui l’opera, la cultura, diventa veicolo e metafora di coltivazione e crescita sostenibile ed armonica.
L’opera non è stata realizzata con le classiche bombolette ma interamente a pennello. Che colori avete utilizzato?
Per stesure piatte e su superfici di questa entità scegliamo sempre colori da utilizzare a pennello o rullo. In questo caso sono colori murali Boero, che si sono rivelati ottimi soprattutto per quanto riguarda la copertura delle tinte che solitamente richiedono diverse mani di pittura. Utilizzando colori non spray ci si guadagna su diversi fronti: le tinte sono miscelabili (possiamo ottenere esattamente il colore che ci siamo immaginati senza doverne scegliere uno da una tacca colori limitata), abbiamo maggiori garanzie sulla durata del colore su muro e sono più veloci da utilizzare. Senza contare la scelta di tipo ecologico: gli spray sono dannosi da respirare per chi li usa, così come anche per l’ambiente che ci circonda.
I vostri interventi artistici non si limitano alle superfici ma inglobano tutto ciò che si trova tra l’opera e il punto di osservazione. A Torino, per esempio, avete fatto sparire un lampione…
Sì, tendiamo a far “sparire” non solo l’architettura, ma anche oggetti e tutti quegli elementi del panorama urbano che si trovano all’interno dell’opera. Celando forme e significati, cerchiamo di creare piani di lettura non scontati, sperando di poter trasmettere quella stessa dose di stupore che abbiamo provato noi, quasi quindici anni fa, davanti all’opera di Hans Holbein il Giovane.