Francesco Poroli, classe 1975, è tra le matite più conosciute dagli appassionati di illustrazione. Negli ultimi anni ha lavorato per The New York Times Magazine, Adidas, Il Sole 24 Ore, Wired, Sportweek, Google, Reebok, NBA, Amnesty International, oltre ad essere l’art director di Rivista Ufficiale NBA. Amante delle geometrie e della semplicità, riesce a far parlare alle sue illustrazioni un linguaggio immediato, che lo ha portato dritto dritto nella cerchia dei creativi più amati e desiderati del momento. Se dovesse capitarvi di partecipare a qualche sua mostra o evento, lo riconoscereste in fretta: è quello che sorride sempre. Ecco cosa ci ha raccontato.
Ciao Francesco, benvenuto su PICAME. Nello scorso mese di aprile sei stato, tra le altre cose, protagonista della Design Week milanese come uno dei 15 protagonisti di BACK2BACK 2014. Cosa rappresentano, per un illustratore, eventi come questo?
Posso dirlo con un francesismo? Una gran figata. Questo lavoro è per sua natura un lavoro individuale, quasi sempre solitario. Condividere con altri (e che altri!) un’occasione insieme è meraviglioso. Così come – e con BACK2BACK è stato così – misurare “fisicamente” il grande apprezzamento delle persone per il tuo lavoro, andando per una volta oltre ai like su facebook e a quelle cose lì.
L’illustrazione italiana sta avendo (finalmente) un periodo d’oro. Secondo te qual è l’ingrediente che piace così tanto?
C’è questa sensazione che le nostre cose stiano un po’ uscendo dall’ombra e acquisendo – passami il termine e mettilo tra tutte le virgolette del caso – una certa popolarità. Credo che la vera forza dell’illustrazione stia nel parlare un linguaggio facile, diretto, comprensibile senza aver bisogno dell’aiuto di testi o altro che spieghino.
Dalle stampe agli editoriali, il tuo tocco è assolutamente riconoscibile, con una forte presenza di geometrie e colori. Ti hanno definito già in tanti modi, alcuni anche curiosi, tu cosa ci racconti del tuo stile?
Non ho una parola precisa per definire il mio stile. Nel corso degli anni ho sentito definire i miei lavori in moltissimi modi: pop, geometrici, colorati, iconici, fino al mio preferito: “vagamente aztechi”. Adoro che siano gli altri a trovare le parole che preferiscono per raccontare il mio stile: il fatto che spesso siano definizioni anche diverse tra loro, oltre a divertirmi mi fa pensare che poi la verità è nell’occhio di chi guarda, che prende una mia idea e la fa sua, appropriandosene, dandole il nome che più trova giusto.
Ho fatto una scorpacciata di tue stampe in occasione della mostra Illustri che ho poi appeso nella pareti di casa mia. Quanto influisce nel processo di realizzazione di un’illustrazione il “luogo” che questa andrà ad occupare?
Bé, nel caso dell’illustrazione editoriale è fondamentale. Saper sposare i propri colori, le proprie forme con il mood di una rivista piuttosto che di un’altra, doversi adattare a spazi in pagina che spesso non hanno una forma precisa, oppure (come nel caso delle copertine) che contengano altri elementi con cui il tuo lavoro deve convivere. Insomma, il luogo – inteso come pagina – è fondamentale. Diverso il discorso delle stampe: quando qualcuno le acquista (a proposito, grazie della scorpacciata) è lui che decide come e dove farle vivere.
La tua carriera come illustratore ha subito un’impennata quando hai realizzato la copertina per New York Times in cui vediamo Mitt Romney in versione weeble wobble. Raccontaci di più.
In realtà il brief per quella copertina era assolutamente preciso. La richiesta di creare un Mitt Romney formato weeble wobble è arrivata direttamente dal NYTimes Magazine. Più che altro – in quel caso – è stato un gioco a indovinare proporzioni e forme corrette, dal momento che il giocattolo che si vede nella cover è fisicamente reale e la mia illustrazione è stata montata all’interno di un vero weeble wobble, acquistato, fatto a pezzi e ricostruito per l’occasione, prima di essere fotografato in studio.
Workshop, mostre, editoriali, cover: la vita di un illustratore freelance è piena di impegni. Come riesci ad organizzare il tuo lavoro?
Se posso, alla lista sopra aggiungerei anche i miei bambini (con relativi impegni) Riccardo e Beatrice, cinque anni il primo, uno e mezzo la seconda. Mettici che lavoro in casa e che sono pessimo nell’organizzazione del mio lavoro e del mio tempo e il gioco è fatto. Credo di non essere la persona giusta per rispondere a questa domanda. Non solo: per inclinazione personale, tendo sempre a fare le cose all’ultimo minuto. Per questo adoro le deadline serrate dei periodici, specie quotidiani o settimanali: le trovo, in qualche modo perverso, assolutamente congeniali.
Qual è la prima cosa che faresti se da domani avessi un mese libero tutto per te?
Credo cazzeggerei serenamente per la maggior parte del tempo. Nel poco tempo libero restante, mi piacerebbe dedicarmi a coltivare le amicizie che sono nate con altri illustratori in questi ultimi anni. Visitare i loro studi, chiacchierare di illustrazione (e non solo), perderci un po’ di tempo. Perché se è vero che questo lavoro lo fai tendenzialmente da solo, ho scoperto che è molto interessante (per non dire formativo) condividere le proprie esperienze con altri che parlino la tua stessa lingua.
Quali sono i tuoi prossimi progetti?
Ci sono un paio di robe super fighe in arrivo tra ottobre e novembre, di cui però non posso rivelarti niente (dovrei ucciderti subito dopo e non mi pare carino). Intanto, a luglio a San Benedetto del Tronto pare salperà una barca con una vela disegnata da me, insieme a quelle di altri illustratori e fumettisti super. Una cosa che non capita esattamente tutti i giorni: sono curiosissimo!