È uscito nelle librerie l’Atlante dei luoghi misteriosi dell’antichità, un volume illustrato che ripercorre quasi 4000 anni di storia alla riscoperta di fatti e artefatti straordinari del passato, molti dei quali risultano ancora oggi inspiegabili.
Il nostro pianeta è pieno di luoghi che, conservatisi pressochè intatti nei secoli (talvolta nei millenni) ci portano testimonianza dell’esistenza di antiche civiltà di cui si è persa memoria. Tutto ciò che possiamo fare per comprenderli è ricorrere alla scienza, “la cosa più preziosa che abbiamo”, come diceva Albert Einstein.
Indagare i misteri da un punto di vista razionale non significa sminuirne il fascino, semmai il contrario. Il pensiero scientifico è ciò che dona concretezza e meraviglia all’inventiva degli antichi, talmente straordinaria che l’uomo moderno, per accettarla, ha dovuto ricorrere a miti e leggende. Le piramidi, da molti ritenute la prova del passaggio degli extraterrestri sulla Terra, ne sono forse l’esempio più lampante. E tuttavia bisogna ammettere che a volte risulta difficile anche per la mente più razionale trovare una spiegazione. Come nel caso dei moai, enormi statue di pietra che si trovano disseminate sull’Isola di Pasqua: 5 metri di altezza per 14 tonnellate ciascuna. Ce ne sono più di mille. Scolpirle e trasportarle risulterebbe un’impresa mastodontica anche i mezzi odierni.
Francesco Bongiorni e Massimo Polidoro hanno cercato di fare luce su questo e numerosi altri interrogativi irrisolti del mondo antico. I due autori non sono nuovi a questo genere di ricerche. Già due anni fa, con l’Atlante dei luoghi misteriosi d’Italia, hanno intrapreso la strada tortuosa del mistero cercando di trovare un punto di incontro tra scienza e mito.
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Francesco è un illustratore “a cui non piace disegnare”, per usare le sue stesse parole, nel senso che il disegno per lui non è tanto il fine quanto il mezzo per poter raccontare storie e argomenti che lo appassionano. È stata sua l’idea degli Atlanti e di coinvolgere una voce autorevole come quella di Massimo Polidoro, fondatore del CICAP e apprezzato divulgatore scientifico.
Ecco cosa mi ha raccontato.
Atlante dei Luoghi Misteriosi dell’Antichità – Cover
Ciao Francesco, bentornato su Picame. Esce oggi nelle librerie il secondo volume di quella che si sta delineando sempre più come una collana. L’avevi immaginata così fin dall’inizio?
No. O meglio, non osavo sperarci. L’idea della serie è stata del team di Bompiani. Il primo volume, “L’Atlante dei luoghi misteriosi d’Italia”, è stato un banco di prova. Sublimare gli sforzi di tutti (specialmente se vivono lontani come nel nostro caso) in una serie di storie, scritte ed illustrate, è qualcosa di molto faticoso e complesso che richiede un certo rodaggio. I testi e le illustrazioni devono risultare armonici tra loro, cosa tutt’altro che semplice. In questo senso la lavorazione a questo nuovo volume è stata molto facilitata dall’affiatamento rodato durante la creazione del primo libro. Credo che l’idea di proseguire con la serie degli atlanti dei misteri sia frutto del processo di lavoro che siamo riusciti a costruire (squadra che vince non si cambia) e dei buoni risultati dati dalle vendite del primo volume, il quale, dopo pochi mesi dall’uscita nelle librerie è andato in ristampa.
In quale lasso di tempo si collocano i misteri che tu e Massimo Polidoro avete preso in esame?
I misteri sono focalizzati sulla storia antica e, al contrario del primo Atlante, non si concentrano solo sull’Italia ma si collocano su tutti i continenti. Qualche licenza è stata presa in certi casi, con alcuni misteri di non chiara collocazione temporale ma così suggestivi da non essercela sentita di escluderli. Penso per esempio a Mokele Mbembe, “colui che ostacola il corso dei fiumi”, un essere leggendario che sarebbe vissuto nelle acque delle paludi della regione del Likouala, nel Congo. Insomma, non abbiamo interpretato l’antichità come un limite temporale da prendere alla lettera ma piuttosto come una suggestione.
Come per il precedente libro dedicato ai luoghi misteriosi d’Italia avete dovuto fare un grande lavoro di ricerca, come si è svolto?
L’Atlante è un lavoro realizzato a quattro mani. Due scrivono e due disegnano. In questo senso io e Massimo ci siamo spartiti il compito delle ricerche preliminari, forse il momento più divertente della produzione. In questa fase si diviene cercatori di misteri. Da parte mia, ho interpretato il ruolo alla lettera. Circa un anno fa, nella primavera del 2019, mi sono preso alcuni giorni di pausa dal mio lavoro abituale di illustratore. In quei giorni, vivendo io a Madrid, mi recavo alla Biblioteca Nacional de España tutte le mattine e lì incominciavano le mie ricerche. Questa biblioteca sembra presa da un film di Indiana Jones. Si tratta della principale biblioteca di Spagna con un fondo bibliografico di 17 milioni di documenti. Entrarci non è semplice: bisogna fare un colloquio e spiegare i motivi della propria visita e gli obiettivi della propria ricerca. Una volta dentro, si viene accompagnati in una imponente sala da studio (potete farvi un’idea dell’ambiente cercando qualche immagine su Google) e si consultano degli schedari. Si forniscono i codici corrispondenti ai volumi che ci interessano al banco e, dopo pochi minuti, un bibliotecario ci porta i libri al tavolo dove ci siamo seduti. Ho passato alcuni giorni in quella sala a consultare libri più o meno antichi, ed a raccogliere idee. È affascinante perdersi alla ricerca di qualcosa, senza sapere che cosa si sta cercando esattamente. Il risultato di queste ricerche, un po’ vintage, è stata una lista che ho condiviso con Massimo Polidoro e con Bompiani. Incrociando le liste mie e di Massimo è nato questo libro.
“La biblioteca in cui ho fatto le mie ricerche sembra presa da un film di Indiana Jones. Si tratta della principale biblioteca di Spagna e conta 17 milioni di documenti. Per entrarci bisogna fare prima un colloquio”
Il Colosso di Rodi
L’approccio usato per affrontare le storie contenute nel libro è, come sempre, razionale e scientifico. Quando si parla di misteri tuttavia, specie se risalenti a migliaia di anni fa, può risultare difficile discernere la leggenda dalla verità. Come avete aggirato l’ostacolo?
Credo che non ci sia persona più qualificata nel fare ciò di Massimo Polidoro, fondatore del CICAP (Comitato Italiano per il Controllo delle Affermazioni sulle Pseudoscienze) ed esperto nello svelare bufale. L’approccio di Massimo è sempre molto scientifico e cauto. Chiamiamo mistero ciò che semplicemente non conosciamo, senza perderci in forzature che, seppur suggestive, non sono dimostrabili.
Secondo te perché gli uomini tendono a dare più credito alle leggende, per quanto improbabili e fantasiose siano, piuttosto che al metodo scientifico?
A mio parere le persone sono molto meno razionali di quello che si pensi. La bellezza di queste leggende risiede nel fatto che parlano ad una parte di noi che ancora riesce a trovare il tempo di fermarsi ad immaginare. Chi, davanti alle mura di un castello, non si è trovato a fantasticare su come avrebbe fatto ad organizzare un attacco per conquistare la fortezza, escogitando metodi ingegnosi e bizzarri per oltrepassare i bastioni? Credo che esista un bambino in ognuno di noi che sia sempre disponibile ogni qual volta ci sia l’occasione di poter ascoltare una bella storia. Ecco, penso che questo libro sia stato creato per lui. Perché i testi e le illustrazioni possano trasportarlo lontano, in epoche antiche e diversissime dal mondo nel quale viviamo, e trasmettergli gli echi lontani che tuttora emergono da quelle leggende. Un’ambizione, la nostra, semplice ma autentica.
Il Cenote Sagrado di Chichén-Itzá
C’è un mistero in particolare che vuoi raccontarci in anteprima?
La storia di questo mistero comincia un po’ come Jurassic Park: con un ricchissimo mecenate americano, Stephen Salisbury Jr., che si presenta da un giovane archeologo (nel film era un paleontologo ma in questo caso cambia poco) e, tra un bicchiere di brandy ed un sigaro, gli propone qualcosa che cambierà la sua vita. Edward Herbert Thompson è allora un giovane e brillante archeologo, studioso della cultura Maya e quello che gli ha appena proposto Salisbury jr. è di trasferirsi nel golfo dello Yucatàn. Possiamo solo immaginare la sorpresa e l’entusiasmo che prova il giovane Thompson che, da appassionato studioso dei Maya, da quelle parti si sentirebbe come un bambino in un negozio di caramelle. L’accordo è raggiunto! Thompson parte per il Messico, dove vi rimarrà per ben 40 anni e svolgerà il ruolo di console dello Yucatàn. Non perde tempo. Inizia una serie di ricerche che concentrano ben presto la sua attenzione su un antico manoscritto. Si tratta di un testo di Diego de Landa, un francescano spagnolo tristemente noto per aver distrutto gran parte del patrimonio culturale scritto dei Maya. “È blasfemo” scriveva, e pertanto non vi è peccato nell’eliminarlo. Scrive anche qualcos’altro Landa, qualcosa a proposito di un Cenote Sagrado. I cenotes sono delle voragini nella roccia, di forma circolare e inondate di acqua dolce, molto comuni in Messico. Questo particolare cenote, secondo Landa, veniva usato per gettarvi dentro uomini vivi come sacrificio agli dei. E aggiunge: “gettavano anche tante cose, come pietre preziose e oggetti che ritenevano di valore. E dunque, se questo paese possiede oro, sarà in questo pozzo che se ne troverà la maggior parte”. Thompson non crede ai suoi occhi e si rimbocca le maniche. È il 1904 e viene fatta costruire in fretta e furia una rudimentale ma efficace draga in acciaio. Per giorni le fauci della draga ripescheranno dalle torbide acque del Cenote nient’altro che fanghiglia e rocce. Thompson, scoraggiato, inizia a pensare che Diego de Landa abbia preso un abbaglio quando, d’improvviso, il cenote incomincia a restituire alla luce del sole frammenti di vasellame, sculture di giada, manufatti in oro e rame e persino alcuni oggetti di tessuto e legno, conservatisi per miracolo. Non è ancora finita: dalla fanghiglia iniziano a spuntare delle ossa. Ossa umane. Tantissime. La leggenda del manoscritto di Diego de Landa era vera. Chi erano quelle vittime? In base a cosa venivano scelte? Nel libro, Massimo Polidoro prova a dare una risposta a questi quesiti.
“Durante il lockdown ho lavorato con calma, prendendomi tutto il tempo per studiare i soggetti storici. Ho gustato le immagini che ho creato perché rappresentavano per me un’evasione da una realtà amara ed angosciante”
Hai realizzato le illustrazioni durante il lockdown mentre ti trovavi a Madrid, ancora oggi una delle zone più colpite dalla pandemia. Cosa comporta lavorare in un simile contesto?
In quei mesi, prima di traslocare quest’estate in un altra zona, vivevo in un quartiere storico di Madrid, in pieno centro: “El barrio de las Letras” (Quartiere delle Lettere), il cui curioso nome deriva dal fatto che ci vivevano i principali scrittori del “Siglo de Oro” spagnolo come Cervantes, Quevedo e Lope de Vega. È un quartiere estremamente vivace e frequentatissimo dai madrileni e dai turisti. Vedere le sue vie fredde e deserte ha creato in me una strana malinconia ed una sensazione che il tempo fosse sospeso. Non c’era fretta. Là fuori quelle vie, quelle piazze e tutto il mondo erano apparentemente immobili. Queste sensazioni hanno fortemente influenzato le mie illustrazioni. Ho lavorato con calma, prendendomi tutto il tempo per studiare i soggetti storici e giungere alla loro rappresentazione un passo alla volta. Ho “gustato” le immagini che ho creato perché rappresentavano per me un’evasione da una realtà amara ed angosciante.
La palette colori questa volta è più calda e vivace, è una scelta puramente estetica?
In realtà direi che le palette sono due. Una composta da rossi, terre, ocra, color paglia e grigi ed un’altra, molto più fredda, che ruota attorno al colore verde acqua e a decine di piccole variazioni. Il denominatore comune è il colore più scuro: il marrone. Risulta freddo coi colori freddi e caldo se affiancato alla paletta calda. La paletta è infinitamente più ampia rispetto al primo volume che ruotava attorno a pochissimi colori. Cercavo un effetto di immagini impolverate e ingiallite dal tempo. Colori mutati per via dei secoli. Insomma, ho cercato di essere coerente con ciò che l’Atlante vuole trasmettere.
Il meccanismo di Anticitera
Quali conclusioni avete potuto trarre una volta ultimato l’Atlante?
Personalmente il primo insegnamento appreso è che in biblioteca ci sono fiumi di sorprese che su internet non si trovano ancora. Da persona cresciuta con internet e che lavora perennemente connessa direi che è una buona conclusione. Il secondo aspetto da tenersi stretto è semplicemente che è bellissimo immergersi in un progetto fatto di storie. Credo che ci faccia bene sentire delle storie di eventi accaduti secoli fa, immedesimandosi in persone così lontane da noi nel tempo eppure così vicine, in quanto esseri umani, per quanto riguarda le preoccupazioni, le paure, i sogni, le utopie.
“In biblioteca ci sono fiumi di sorprese che su internet non si trovano ancora”
La domanda è d’obbligo, ci sarà un terzo titolo della collana?
Chi lo sa? Sono portato a pensare che se questo volume dovesse andare bene come il primo ci sarebbero tutti i presupposti per arricchire la collana con un nuovo libro. Il naturale proseguimento della serie potrebbe essere l’epoca del medioevo ma in questo momento, oltre a un po’ di ottimismo che cerco di portarmi sempre dietro, non ho nulla che mi faccia dire di essere sicuro che un altro titolo si farà. Tra due anni lo scopriremo. In quel caso mi impegno ad avvisare Picame che, d’altronde, dopo aver presentato entrambi i volumi, ha oramai assunto l’impegno categorico ed irrevocabile di accompagnare i suoi lettori nel mondo dei misteri che io e Massimo proviamo a raccogliere e raccontarvi.
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